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Acqua dal mare per battere la siccità?

Pro e contro di una tecnologia che negli ultimi anni è diventata più competitiva dal punto di vista energetico e ambientale. Il tema è stato al centro del Festival dell’Acqua di Bari

E se fosse il mare il più grande serbatoio di acqua potabile a nostra disposizione? Ci siamo lasciati alle spalle una delle estati meno piovose dell’ultimo secolo e gli effetti della crisi idrica sono ancora sotto ai nostri occhi; eppure, tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, nessuno è circondato dall’acqua più del nostro. Una risposta a questo paradosso potrebbe arrivare dalla dissalazione dell’acqua marina, una soluzione che – grazie agli sviluppi tecnologici degli ultimi anni – registra costi minori e ridotti impatti ambientali.

Non a caso, a livello mondiale, la produzione ha già superato i 100 milioni mc/giorno, interessando principalmente i Paesi Arabi, l’Australia, la costa orientale degli USA e alcuni Stati che si affacciano sul Mediterraneo. E’ il caso di Israele, dove 4 impianti di dissalazione garantiscono ormai il 40% dell’approvvigionamento nazionale; oppure degli Emirati Arabi Uniti, dove nel porto di Jebel Ali vengono prodotti 600.000 metri cubi di acqua ogni giorno; ma anche di Barcellona (il cui livello di piovosità è paragonabile a quello di alcune aree del nostro Mezzogiorno) che, grazie a un sistema ibrido fatto di 2 potabilizzatori e 2 dissalatori, riesce a garantire l’acqua potabile a 5 milioni di abitanti e a più di 8 milioni di turisti l’anno.

La dissalazione è stato uno degli argomenti al centro del Festival dell’Acqua, organizzato da Utilitalia (la Federazione delle aziende che si occupano di acqua ambiente e energia) lo scorso ottobre a Bari. Ma qual è la situazione nel nostro Paese? L’Italia ha grandi margini di miglioramento, avendo avviato per ora soltanto alcuni progetti pilota; tra le fonti di approvvigionamento idrico le acque marine o salmastre rappresentano soltanto lo 0,1%. Simili impianti sono presenti in Sicilia, in Sardegna e in alcune piccole isole, dove hanno sostituito i vecchi sistemi di alimentazione come il trasporto di acqua potabile su navi cisterna. In effetti questa soluzione ha scontato per anni due ordini di problemi: quello dei consumi energetici, sensibilmente più alti dei processi convenzionali di produzione di acqua potabile, e quello della restituzione in mare delle soluzioni saline concentrate che rappresentano lo “scarto” del trattamento; nel D.Lgs. 152/2006 che regola la materia degli scarichi non è presente alcuna norma specifica sul tema, e immettere questo tipo di acque in bacini chiusi o semichiusi può causare gravi danni all’ecosistema marino.

Negli ultimi anni, però, il quadro è decisamente migliorato. Le tecnologie utilizzate – su tutte l’osmosi inversa – hanno portato a una sensibile riduzione dell’incidenza di Kwh per metro cubo di acqua prodotta, e al contempo è sempre più frequente la tendenza di integrare l’energia elettrica per alimentare gli impianti con quella prodotta in loco da fonti rinnovabili, come il solare e l’eolico, ottenendo una diminuzione dei costi in bolletta; anche dal punto di vista degli impatti ambientali, ormai è noto che lo smaltimento delle soluzioni saline debba avvenire seguendo precise misure che preservino la salute del mare. Resta però il fatto che la dissalazione risulta sostenibile sul piano economico-gestionale solo in presenza di particolari presupposti; il principale è che l’acqua dissalata sia realmente integrata con le altre risorse presenti, potendo contare su una rete idrica dalle dispersioni contenute: una condizione poco frequente in Italia, dove le perdite delle reti acquedottistiche si attestano al 26% al Nord, al 46% al Centro e al 45% al Sud.

C’è infine un paradosso, tutto nostrano, di norme che frenano lo sviluppo di questa tecnologia proprio laddove ce ne sarebbe più bisogno, ovvero nelle isole minori. Qui, sin dal dopoguerra, sono state approvate leggi per finanziare il servizio di approvvigionamento e trasporto dell’acqua via mare, tramite navi cisterna; una soluzione costosa e caratterizzata dal rischio di interruzione del servizio in caso di condizioni meteo avverse. Con un piccolo (si fa per dire) cavillo: questo contributo pubblico decade nel momento stesso in cui la fornitura idrica viene assicurata all’isola tramite sistemi di dissalazione. E allora si spiega la resistenza di molti amministratori locali rispetto all’eventualità di realizzare tali impianti: è il caso di Ventotene, dove la costruzione del dissalatore appena entrato in funzione è stato per anni oggetto di ricorsi e controricorsi, mentre i contribuenti hanno continuato a pagare la fornitura di acqua su navi cisterna; le stesse che ancora garantiscono l’approvvigionamento della vicina isola di Ponza, in attesa del via libera definitivo all’impianto.