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Smartworking e ambiente: meno CO2 dagli spostamenti, ma tanta dal flusso dati in rete

Smartworking e ambiente

Lo Smartworking fa bene all’ambiente? Un bilancio difficile da stilare perché se il lavoro da casa riduce le emissioni di CO2 derivate dagli spostamenti e dall’energia consumata negli uffici, è anche vero che il flusso di dati in rete incide pesantemente sull’inquinamento ambientale.

Non basta ribattere che i dati in rete circolano anche lavorando in ufficio, perché il loro vertiginoso aumento, registrato durante il lockdown, è tale da mettere in dubbio i reali benefici finali. Dubbi che saranno chiariti dalle ricerche a medio e lungo termine sui dati effettivi dell’inquinamento atmosferico. Nel frattempo, le voci in campo sono diverse, ma una soluzione comune è possibile.

Benvenuto Smartworking

Secondo la ricerca condotta dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente sui dipendenti di tutte le Agenzie ambientali regionali e provinciali e Ispra, con lo smartworking le emissioni si abbassano sensibilmente.

Con l’inizio del lockdown per l’emergenza Covid, infatti, anche gli enti del Snpa hanno dovuto adottare rapidamente modalità di lavoro a distanza. E un piccolo ma significativo sondaggio interno ne ha valutato l’impatto in termini di emissioni. La ricerca è stata condotta a cura di Mauro Mussin (Arpa Lombardia) con la collaborazione di Giovanna Martellato (Ispra), Ketty Lorenzet (Arpa Veneto).

Sui 10.480 dipendenti (all’1.1.2020) di tutte le Agenzie ambientali regionali e provinciali e Ispra, hanno risposto in 3.907. Un campione sufficientemente ampio per consentire di approfondire la conoscenza sulle abitudini di mobilità del personale e di stimare il contenimento delle emissioni di anidride carbonica (principale climalterante) nel periodo preso in esame.
Nonostante sia necessaria un’ulteriore riflessione sull’efficacia e sulla concreta valenza organizzativa di questa esperienza di lavoro agile, magari attraverso un eventuale questionario ad hoc, il sondaggio ha mostrato una fotografia ben precisa di come, almeno sull’aspetto legato alla mobilità, i dipendenti si sono relazionati con la nuova modalità lavorativa.

Dei rispondenti, solo il 4% ha dichiarato di essersi sempre recato sul luogo di lavoro, mentre il 13% lo ha fatto per meno di 10 giorni e ben il 63% ha lavorato da casa per più di 30 giornate lavorative, nel periodo 1 marzo – 31 maggio 2020.

Come efficacemente sintetizzato dal Giornale della Protezione civile, per calcolare i quantitativi di emissioni risparmiate sono stati utilizzati i fattori di emissione pubblicati da Ispra per i trasporti distinguendo il mezzo privato da quello pubblico e si sono poi stimati quelli relative ad ogni agenzia sulla base delle risposte complessivamente fornite, trascurando il fatto che alcune abbiano avuto un tasso di risposta superiore ad altre.

L’indagine condotta ha consentito di stimare un risparmio complessivo di 1884 tonnellate di CO2 nel periodo marzo-maggio.

Tanto o poco? Per rispondere a questa domanda è utile sapere che l’emissione media per abitante in Italia è di 7,3 t all’anno, un valore sostanzialmente stabile dal 2014 e invariato negli ultimi anni. Migliore il dato complessivo europeo con una media di poco inferiore a 7 t/anno (con 16,3 t/a del Lussemburgo e 4.1 t/a della Romania), mentre in altri Paesi la situazione è decisamente peggiore (Canada 17, USA 16, Russia 12, Cina 8).

Considerato che mediamente un albero assorbe 1 tonnellata di CO2 in 100 anni, ossia 10 kg/anno, la CO2 risparmiata dai dipendenti Snpa nel periodo di lockdown è la stessa che avrebbero risparmiato 269 dipendenti se avessero deciso di vivere completamente a emissioni zero. Oppure, se tutti i 10.480 dipendenti del Snpa avessero piantato 18 alberi a testa, o mangiato 31.400 Kg di carne in meno, o ancora percorso 16 milioni di Km in meno con la propria auto.

Ma anche lo smartworking inquina

Diverso il parere espresso da un recente articolo de Linkiesta, secondo cui la pandemia ha moltiplicato l’utilizzo delle infrastrutture digitali, complice soprattutto un aumento del lavoro da remoto. I file e le informazioni digitali vengono immagazzinate nei data center, che consumano grandi quantità di energia per essere sempre attivi con prestazioni impeccabili

Una email immette nell’atmosfera circa 4 grammi di CO2, se a quella stessa email viene allegato un file di grandi dimensioni le emissioni possono arrivare fino a 50 grammi. Ogni email inviata e ricevuta utilizza elettricità, così come il router per la connessione internet. I file vengono poi archiviati nei data center, strutture fisiche enormi che hanno bisogno di energia per rimanere in funzione e di impianti di raffreddamento per mantenersi attivi.

I data center di tutto il mondo consumano circa il 4 per cento dell’elettricità prodotta a livello globale e competono con l’industria aerea in fatto di emissioni di anidride carbonica. Secondo Audiweb, nella prima metà del 2020 il consumo di dati online è aumentato vertiginosamente: “con 44,1 milioni di utenti unici mensili, il numero di persone che hanno utilizzato internet ad aprile resta vicino al livello di marzo, superiori a quelli di febbraio e dell’anno precedente (+4,8%)”.

In un quadro generale, conclude Linkiesta, il lockdown ha avuto effetti positivi immediati sulla qualità dell’aria – ad esempio riducendo di circa il 40 per cento il biossido di azoto (NO2) presente – ma l’aumento del consumo di dati è stato verticale.

Su questo ha influito, ovviamente, anche l’aumento dello smartworking. Prima della pandemia in Italia lavoravano da casa o comunque da remoto 570mila persone, con un incremento del 20 per cento tra il 2018 e il 2019, con il lockdown quel numero dovrebbe essere salito a circa 8 milioni: quattordici volte tanto, come rivelato da un’indagine sullo smartworking promossa dalla Cgil.

Insieme allo smartworking, nei primi mesi del 2020, anche tante altre azioni quotidiane si sono trasformate in consumo di dati: lezioni scolastiche diventate videoconferenze, collegamenti in diretta nei talk-show televisivi, la spesa on line cresciuta del 25% sul secondo un rapporto di Agi-Censis, 16 milioni di abbonati Netflix in più nel primo trimestre 2020.

La soluzione?

L’aumento dei servizi digitali nella nostra quotidianità è pressoché inevitabile, e inevitabile è anche un impatto diretto sull’ambiente dei dati che si trasformano in emissioni. Il 2020 in questo senso è stato un acceleratore per un trend già in crescita costante negli ultimi anni.

Una soluzione efficace, a cui alcune grandi aziende stanno pensando, va nella direzione della eco sostenibilità dei data center. Facebook ha aperto data center nel nord della Svezia per sfruttare le temperature rigide del Polo, Microsoft ha pensato di immergere i suoi server nei mari scozzesi, la Apple tenta di alimentare i data center con energie rinnovabili. Sky ha comunicato di voler diventare “net zero carbon” entro il 2030, una strada, quest’ultima, apprezzata e invocata da tempo da Greenpeace.